Come scrisse il giornalista Tommaso Besozzi nella sua inchiesta sulla
mafia del 1950, «di sicuro c’è solo che è morto». Ma in quanto al resto,
sull’omicidio di Angelo Mancia avvenuto il 12 marzo del 1980, stiamo ancora a
quel giorno. È vero, nel 2010 le indagini furono riaperte perché si ipotizzò che
l’efferato omicidio fosse collegato con l’altro, altrettanto efferato, dello
studente Valerio Verbano, avvenuto meno di un mese prima, il 22 febbraio, in un
luogo non distante, ossia sempre a Montesacro. La rivendicazione dei “Compagni
organizzati in Volante Rossa”, in effetti, parlava di vendetta per l’assassinio
del compagno Verbano, ma i responsabili non sono mai venuti fuori, né di questo
né di quell’omicidio, tanto che è appena il caso di far notare se veramente i
due fatti sono o furono mai collegati. Per la verità, la stragrande maggioranza
degli omicidi politici dei militanti del Msi e del Fronte della Gioventù è
rimasta impunita, vuoi per lo scarso interesse nell’opinione pubblica e ancora
di più nell’apparato statale per l’individuazione dei responsabili, vuoi per il
modo a volte superficiale e approssimativo in cui le indagini stesse furono
condotte, come nel caso dell’omicidio di Francesco Cecchin, giovane missini
assassinato a piazza Vescovio, non molto lontano da Montesacro. Stesso discorso
per Paolo Di Nella, ucciso a piazza Gondar, a pochi metri da piazza Vescovio,
nel 1983, da persone rimaste per sempre sconosciute, e per Angelo Pistolesi,
freddato con tre colpi di pistola al quartiere Portuense il 28 dicembre del
1977, pochissimi giorni prima della strage di Acca Larenzia. Gli assassini di
Falvella, di Mantakas, di Ramelli sono stati individuati, invece, ma hanno
scontato pene talmente lievi che non ne è neanche valsa la pena, si ha la
percezione di non avere avuto giustizia. Neanche un risultato per Pedenovi,
ucciso a Milano, Zilli, ucciso a Pavia, Zicchieri, ucciso a Roma, tutte vittime
senza giustizia. Quel 12 marzo del 1980 Angelo Mancia, che lavorava per questo
giornale, che allora aveva la sede in via Milano, stava uscendo da casa sua, a
via Federigo Tozzi al quartiere Talenti (il vecchio “Montesacro alto”) per
andare, in motorino, al centro. Sarà stato poco dopo le 8,30. mentre è nel
vialetto che sta slegando il Garelli, si sente chiamare, capisce, e tenta di
tornare nel palazzo.
Troppo tardi, un a pallottola lo prende alla schiena e poi altre lo raggiungono. In tutto sette, compresa quella con cui i killer lo finiscono. A quanto si è ricostruito dopo, gli assassini della Volante Rossa lo hanno atteso, forse tutta la notte, dentro un pulmino Volkswagen azzurrino parcheggiato lì davanti, e a quanto pare indossavano camici da infermieri. Subito dopo, una Mini Minor rossa ha raccolto i killer e li ha portati via. Verde era invece la Mini Minor dalla quale partirono i colpi che uccisero Stefano Cecchetti, sempre a Talenti, un anno prima. Appena due notti precedenti altrettanto ignoti assassini avevano ucciso al quartiere Flaminio il cuoco Allegretti, scambiato per il segretario della sezione locale del Msi, continuando nell’errore anche nella rivendicazione del giorno successivo: «Abbiamo ucciso il fascista tal dei tali…». Anche questo capitava quegli anni, che un innocente finisse in mezzo agli odi politici di chi non voleva che altri ragazzi esprimessero le loro idee. Cinque giorni prima, ancora, una bomba era esplosa nella tipografia del Secolo d’Italia, dove Angelo lavorava. Oggi è impossibile negare il disegno terrorista della sinistra teso a eliminare fisicamente i loro avversari politici.
Ma negli anni Settanta i giornali, e non solo quelli di sinistra, a ogni omicidio di un “fascista”, tiravano fuori la favola della “faida interna”, come fecero per la strage di Primavalle, che – e si seppe anni dopo – era stata effettivamente fatta da tre esponenti dell’ultrasinistra, come il Msi aveva sostenuto sin dal primo momento. E ogni volta, puntuale quanto sistematica, la mistificazione, che però fu sempre smentita dai fatti. Addirittura Paese Sera mandò un volenteroso inviato ad Atene, dopo che fu ucciso Mantakas, il quale dovette ritornare senza aver scoperto trame di alcun genere. Così con Mancia non ci provarono neanche: era benvoluto e amato da tutti, nella comunità umana e politica dove viveva. Era il segretario della sezione Talenti di via Martini, sezione che gli antifascisti avevano fatto saltare diverse volte. Era un entusiasta tifoso della Lazio, quasi ogni domenica era all’Olimpico, e nel quartiere più volte si era scontrato davanti alle scuole con i temibili collettivi di Val Melaina e del Tufello. Insomma, era un militante molto in vista, e per di più facile da colpire, perché era sempre disarmato, come tutti i ragazzi del Msi, anche se qualche volta capitò che ne arrestassero qualcuno sostenendo che il pennello per attaccare i manifesti era un’arma impropria… Quanto alla Volante Rossa originaria, era un gruppo partigiano “rosso” che agì sino al 1949 che si macchiò di orrendi delitti a guerra finita, tanto che quando i componenti furono catturati, i giornali titolarono «Fino di un incubo». Attentati, sequestri, omicidi, la Volante Rossa si macchiò di un numero impressionante di reati: tra l’altro, furono loro ad assassinare nel 1947 Franco De Agazio, il direttore del Meridiano d’Italia. I 32 imputati furono tutti condannati e pesanti pene, anche se alcuni erano stati aiutati a riparare oltre cortina. Negli anni Settanta, poi, altri membri della banda furono graziati prima dal presidente Saragat e poi da Pertini.
Troppo tardi, un a pallottola lo prende alla schiena e poi altre lo raggiungono. In tutto sette, compresa quella con cui i killer lo finiscono. A quanto si è ricostruito dopo, gli assassini della Volante Rossa lo hanno atteso, forse tutta la notte, dentro un pulmino Volkswagen azzurrino parcheggiato lì davanti, e a quanto pare indossavano camici da infermieri. Subito dopo, una Mini Minor rossa ha raccolto i killer e li ha portati via. Verde era invece la Mini Minor dalla quale partirono i colpi che uccisero Stefano Cecchetti, sempre a Talenti, un anno prima. Appena due notti precedenti altrettanto ignoti assassini avevano ucciso al quartiere Flaminio il cuoco Allegretti, scambiato per il segretario della sezione locale del Msi, continuando nell’errore anche nella rivendicazione del giorno successivo: «Abbiamo ucciso il fascista tal dei tali…». Anche questo capitava quegli anni, che un innocente finisse in mezzo agli odi politici di chi non voleva che altri ragazzi esprimessero le loro idee. Cinque giorni prima, ancora, una bomba era esplosa nella tipografia del Secolo d’Italia, dove Angelo lavorava. Oggi è impossibile negare il disegno terrorista della sinistra teso a eliminare fisicamente i loro avversari politici.
Ma negli anni Settanta i giornali, e non solo quelli di sinistra, a ogni omicidio di un “fascista”, tiravano fuori la favola della “faida interna”, come fecero per la strage di Primavalle, che – e si seppe anni dopo – era stata effettivamente fatta da tre esponenti dell’ultrasinistra, come il Msi aveva sostenuto sin dal primo momento. E ogni volta, puntuale quanto sistematica, la mistificazione, che però fu sempre smentita dai fatti. Addirittura Paese Sera mandò un volenteroso inviato ad Atene, dopo che fu ucciso Mantakas, il quale dovette ritornare senza aver scoperto trame di alcun genere. Così con Mancia non ci provarono neanche: era benvoluto e amato da tutti, nella comunità umana e politica dove viveva. Era il segretario della sezione Talenti di via Martini, sezione che gli antifascisti avevano fatto saltare diverse volte. Era un entusiasta tifoso della Lazio, quasi ogni domenica era all’Olimpico, e nel quartiere più volte si era scontrato davanti alle scuole con i temibili collettivi di Val Melaina e del Tufello. Insomma, era un militante molto in vista, e per di più facile da colpire, perché era sempre disarmato, come tutti i ragazzi del Msi, anche se qualche volta capitò che ne arrestassero qualcuno sostenendo che il pennello per attaccare i manifesti era un’arma impropria… Quanto alla Volante Rossa originaria, era un gruppo partigiano “rosso” che agì sino al 1949 che si macchiò di orrendi delitti a guerra finita, tanto che quando i componenti furono catturati, i giornali titolarono «Fino di un incubo». Attentati, sequestri, omicidi, la Volante Rossa si macchiò di un numero impressionante di reati: tra l’altro, furono loro ad assassinare nel 1947 Franco De Agazio, il direttore del Meridiano d’Italia. I 32 imputati furono tutti condannati e pesanti pene, anche se alcuni erano stati aiutati a riparare oltre cortina. Negli anni Settanta, poi, altri membri della banda furono graziati prima dal presidente Saragat e poi da Pertini.
di ANTONIO PANNULLO - SECOLO D’
ITALIA 12 marzo 2014
La motivazione del gesto è
farneticante. Viene considerato, per una sorta di responsabilità territoriale,
il responsabile dell’assassino del giovane militante di sinistra Valerio
Verbano, freddato il 22 febbraio del 1980 da tre giovani armati e i volti
coperti da un passamontagna che fecero irruzione nella sua casa al quarto piano
di via Monte Bianco 114, a Montesacro. Lo stesso quartiere in cui operava
Angelo. Valerio e Angelo, insomma, militavano in fronti opposti. Due “nemici”, uniti
però dallo stesso tragico destino.
L'attentato venne
rivendicato da una telefonata a "La Repubblica"
Così uccisero
"Manciokan", il missino buono della sezione Talenti
“Ragazza che aspettavi, un
giorno come tanti, un cinema o una pizza per stare un po’ con lui. Dai apri la
tua porta che vengo per parlarti, sai stasera in piazza erano tanti…”.
Cinema e pizza che Angelo
Mancia e quella ragazza, quel maledetto 12 marzo del 1980 non si goderono. Né
quel giorno, né quelli successivi. Angelo, venne trucidato, a colpi di pistola,
sotto casa, a soli 27 anni, mentre andava a lavorare, da un infame attacco dei
“compagni”.
Parlare di Angelo Mancia vuol
dire, per chi lo ha conosciuto e gli è stato amico, parlare soprattutto di un
grande attivista del Movimento Sociale Italiano. Lavorava come fattorino al
“Secolo d’Italia”. Dotato di un carisma unico, forte personalità e soprattutto
di una carica umana senza paragoni. Il suo nome, anche a distanza di 33 anni,
resta legato in maniera indissolubile a quello della "mitica" Sezione
Talenti dell’MSI. Quella di Via Ferdinando Martini 29. “Era legatissimo al
MSI”, lo ricorda così Francesca, suo fratello Angelo. “Nel quartiere lo
conoscevano tutti. Era molto presente per tutte le iniziative che il partito
organizzava. Io sono stata costretta addirittura ad iscrivermi in una scuola
lontana da casa, perché bastava dire il mio cognome e a tutti veniva in mente
Angelo. Ma, al di là di tutto, il mio ricordo è quello di una persona
splendida, cui ero legatissima”.
Figlio di una famiglia di
piccoli commercianti, se non avesse sentito il forte richiamo della “giungla”
politica, probabilmente avrebbe realizzato il suo sogno: aprire un negozio di
alimentari.
Amava Lucio Battisti e
Christopher Cross, Angelo Mancia. E poi,
era laziale. La seguiva ovunque la sua Lazio, anche in trasferta. Per molti era
“un personaggio irruento”, che spesso si spingeva nelle scuole del suo
quartiere, dove l’estremismo di destra e di sinistra convivevano fianco a
fianco. Già, il suo quartiere, Talenti, senza troppi spazi per i giovani, costretti, per vedersi
e formare le solite comitive, a riunirsi davanti ai bar della zona. Ed
era proprio tra queste comitive che Angelo era diventato assai popolare
“Ogni tanto partecipava perfino
a degli incontri fra ragazzi di destra e di sinistra, -ricorda Francesca- che
regolarmente finivano con una rissa. Ma lui stava li e, per me, per i ragazzi
del quartiere era un po’ come un padre”. Era simpatico Angelo, da molti
considerato un giovane dall’atteggiamento guascone, ma allo stesso tempo
rassicurante.
Lui, con la sua enorme
determinazione riusciva a convincere i giovani di Talenti, che la mattina erano
tormentati nei licei "rossi" della zona, (Orazio e Archimede in
testa) a lasciare i bar e le bische, per frequentare la "Sezione di Via
Martini". In poco tempo, da quelle parti,
si creò un gruppo molto unito che, oltre alla militanza politica, iniziò
a condividere una grande amicizia. Politica si, ma alternata, allo stesso tempo
a momenti di svago, tutti trascorsi insieme agli “camerati”: si andava a sciare o al mare. Poi, a primavera tutti concentratissimi sul torneo
"Fiamma" che per diversi anni fu accanitamente conteso tra tutte le
sezioni missine di Roma. Questa, la parte bella. Ma Talenti era “accerchiata” da
veri e propri feudi "rossi" (da una parte S. Basilio e dall’altra
Tufello e Val Melaina con il tristemente noto collettivo autonomo). Il pericolo
di uno scontro era sempre dietro l’angolo.
In quegli anni, quelli di
piombo, si viveva così. Ma qui, più che
in altre zone, l’attesa, e spesso la paura, delle immancabili aggressioni e
provocazioni da parte dei compagni era maggiore. Se non ti difendevi, morivi e
amen. I grandi organi d’informazione, per giunta, avevano bella e pronta la
pista della “faida interna”. Se, invece, accennavi a un minimo di reazione
l’accusa di “ricostituzione” erano pronti a servirtela su un piatto d’argento.
“Com’è misera la vita negli abusi di potere…”, cantava Battiato.
Provocazioni ed agguati, come
quello che subì Angelo Mancia. Un agguato vile e criminale infame, un
appuntamento con la morte.
È la mattina del 12 marzo 1980,
ore 8.20, minuto più, minuto meno. La strada è ancora deserta. Siamo in via
Tozzi, in zona Bufalotta. Angelo, come detto, fa il fattorino del Secolo
d’Italia, il quotidiano del MSI. È uscito di casa, come al solito, per andare a
lavoro. In motorino, parcheggiato poco distante. Ma al lavoro, “Manciokan” (gli
amici lo chiamano così) non ci arriverà mai.
Non fa che pochi passi, quando,
ad un tratto, si sente chiamare per nome. Ad apostrofarlo sono tre persone in
camice bianco, vestiti da infermieri, che sono scese dal retro di un furgone
parcheggiato lì di fronte. Hanno passato la notte chiusi nel pulmino (ma questo
si saprà solo dopo). Lo aspettano.Angelo, capisce subito, avverte
immediatamente il pericolo. Di coraggio ne ha da vendere. È sempre stato un
vero combattente lui, schierato in prima linea. Uno, in altre parole, abituato
a non tirarsi mai indietro. E lui lo sa che di nemici ne ha molti. In quegli
anni si è sempre in guerra e si vive perennemente nell’inquietudine. Bisogna
stare “in campana”, di teste calde in giro ce ne sono tante. Del resto, appena
due giorni prima, il dieci di marzo, in via Tiepolo, sempre a Roma, un commando
comunista aveva ucciso un cuoco, tra l’altro iscritto alla CGIL, Luigi
Allegretti, scambiandolo per Gianfranco Rosci, segretario della sezione Msi Flaminio.
Va pure messo in conto che
Mancia era da tempo entrato nel mirino degli “autonomi” che fanno riferimento
al collettivo ultracomunista di Valmelaina, coi quali si era più volte
scontrato, anche fisicamente. Inoltre era stato, puntualmente, inquisito per
“ricostituzione del Partito fascista”.
Voltatosi di scatto, Mancia non
fa in tempo neppure a fiatare. Un colpo di pistola, sparato a bruciapelo, lo
colpisce subito. Ma lui rimane in piedi, grazie alla sua robusta costituzione.
Magari, pensa, “forse ce la faccio”. L’unica cosa che gli viene in mente è
tirare il suo “Benelli” contro i tre aggressori e correre, a perdifiato, in
cerca di salvezza. Chissà cosa gli passa per la mente in quegli attimi così
concitati. Non lo si saprà mai. I killer, infatti, non mollano. Lanciatisi all’
inseguimento, sono determinati a eliminarlo. E ci riescono. Altri due colpi
sparatigli alle spalle, infatti, lo centrano in pieno. Mancia non ha scampo.
Cade a terra, in un lago di sangue. Lo scempio non è ancora finito: uno dei tre
criminali, avvicinatosi al corpo ormai agonizzante di Angelo, gli pianta una
pallottola direttamente nel cervello. In totale, contro di lui, sono stati
esplosi sei colpi di pistola calibro 7.65.
La rivendicazione arriva
puntuale come un orologio. Stavolta si tratta dei “Compagni Organizzati in
Volante Rossa”. Un gruppo mai sentito prima. L’attentato viene rivendicato da
una telefonata a la Repubblica: “ qui compagni organizzati in Volante rossa.
Abbiamo ucciso noi il boia Mancia. Un messaggio da far rabbrividire. Ancora
oggi.
La sinistra extraparlamentare
addossa subito all’ambiente di destra la responsabilità dell’assassino di
Verbano, nonostante nessuno lo abbia mai rivendicato. E poco importa se la
mamma del giovane di sinistra, la signora Carla Verbano, che per 30 anni ha
cercato gli assassini del figlio, ha avanzato il sospetto che “chi ha ucciso Valerio, possa anche essere
qualcuno della sinistra, del suo ambiente”.
Ciò nonostante viene affisso un
manifesto, in quei giorni, che promette una pronta vendetta di Verbano. C’era scritto che non sarebbero
bastate "100 carogne nere". E la magistratura, ovviamente, non
interviene. Gli autori del manifesto, firmato dai “compagni dell’Autonomia” non
vengono arrestati, quasi che non fossero noti alla questura.
I funerali di Angelo si tengono
il 14 marzo, due giorni dopo la sua morte, nella Basilica di Santa Maria degli
Angeli, in piazza della Repubblica. Alla cerimonia, che si svolge sotto una
pioggia battente, partecipa anche Giorgio Almirante, accompagnato da una folla
affranta di centinaia tra dirigenti, militanti, attivisti e simpatizzanti del
partito.
Dopo la cerimonia scoppiano dei
tafferugli. Troppo forte la rabbia, ancora.
Mancia viene lasciato riposare
in pace solo quel giorno. Già la mattina del 14 marzo, infatti, alcuni giornali
cominciano, odiosamente, a dipingere il ritratto di Mancia, a loro uso e
consumo: squadrista, picchiatore, violento. Sono questi alcune etichette che
gli vennero affibbiate. Etichetteche cercano di infangare il nome di quello che
altro non è se non un martire. La stampa antifascista, come al solito, deve in
qualche modo "giustificare" o "attenuare" quest’omicidio.
Tanto, dicono alla Rai e scrivono i giornali, era un violento. Niente di più
falso.
Nessuno si prende la briga
d’indagare. Tanto che anche questa “impresa” dei compagni resta, ancora oggi,
impunita. Gli esecutori materiali dell'omicidio, grazie allo scarso impegno
della magistratura romana, rimasero ignoti.
“Angelo non aveva paura di
nulla, ma, certamente, non era un insensibile”. Lo ricorda così Francesco
Storace.“ Io non c’ho paura- mi diceva-. Finchè, dopo due o tre bicchieri di
vino, mi disse: “Ma tu che dici Francè? Noi fascisti, quando moriamo dove
annamo a finì? All’inferno o in paradiso?”
Paolo Signorelli - IL GIORNALE D’ ITALIA
CORRIERE DELLA SERA 13 MARZO 1980
Angelo Mancia, assassinio
impunito. La Volante Rossa non fu mai presa
Ce li ricordiamo bene i
funerali di Angelo Mancia: scontri con le forze dell’ordine in piazza della
Repubblica, che noi romani chiamiamo piazza Esedra. La piazza, grandissima, era
piena: bandiere, saluti romani, migliaia di giovani arrabbiati e sconvolti per
la fine di un grande attivista missino ma soprattutto di una grande persona, di
un ragazzo esuberante e volenteroso, sempre allegro, che fu assassinato
vigliaccamente dai nuovi partigiani della Volante Rossa, gruppo che riprese il
nome da un gruppo di feroci terroristi che imperversò a Milano e nel nord
Italia nei giorni della “liberazione”. Era il 12 marzo 1980, gli anni di piombo
si stavano quasi concludendo, nel piombo e nel sangue, e per noi missini era
durissima: le sezioni si erano svuotate, per i “fascisti” c’era il coprifuoco
in tutta Italia, non si potevano fare manifestazioni, attaccare manifesti,
parlare alle scuole o alle università, chi non la pensava cone la sinistra era
perseguitato in ogni modo. Perché allora uccidere un fascista non era reato. E
neanche l’omicidio di Angelo Mancia fu un reato, a quanto pare, poiché nessuno
dei suoi assassini è stato individuato. Come non si sono scoperti i
responsabili di un altro efferato assassinio, quello di Valerio Verbano,
avvenuto pochi giorni prima, il 22 febbraio, sempre nello stesso quartiere,
Montesacro. Angelo Mancia era il segretario dell’attivissima sezione del Msi di
Talenti di via Martini, zona dove abitava in via Federigo Tozzi 10. Angelo era
il primo di tre figli di una famiglia che aveva un esercizio commerciale
alimentare. Era più grande di otto anni rispetto ai suoi fratelli, due gemelli,
Francesca e Luciano, rispetto ai quali era molto protettivo, da bravo
fratellone maggiore. Sì, perché Angelo era conosciuto a Roma soprattutto per il
suo carattere estroverso, allegro, un po’ guascone. Era sempre pronto a offrire
(o a farsi offrire) un “baby” in piazzale delle Muse o da Giovanni, negli anni
Settanta luoghi di ritrovo dei giovani di destra. Amava le moto, la musica, la
pesca subacquea ma soprattutto la politica, questo attivismo esasperato 24 ore
su 24 che in quegli anni caratterizzava i “fortini” missini nella capitale. Era
amico di tutti, dal vigile urbano all’angolo di piazza Talenti al barista del
bar Parnaso ai Parioli. Non era antipatico a nessuno. Ma il 1980, purtroppo, fu
questo e molto altro: la violenza politica non conosceva freni, atrocità
inimmaginabili sembravano allora normali, stragi furono evitate per un soffio.
Quell’anno era incominciato nel segno dell’antifascismo: l’8 gennaio un
commando dell’estrema sinistra si introduce in orario di lezioni all’istituto
De Amicis al Testaccio, preleva dalla sua classe un ragazzo simpatizzante del
Fronte della Gioventù e lo massacra a sprangate nei corridoi. Ma il peggio deve
ancora arrivare: il 12 febbraio, un mese prima dell’omicidio Mancia, viene
assassinato dalle Brigate Rosse dentro l’ateneo romano, a Scienze politiche, il
professor Vittorio Bachelet. Il 19 febbraio Montesacro entra nel mirino, anche
perché pochi giorni prima un convegno di studi sulla droga organizzato dal
Fronte della Gioventù aveva avuto grande successo. Due bombe ad alto potenziale
distruggono la sezione missina di via Valsolda. Dopo l’assassinio di Valerio
Verbano, il 22 febbraio, iniziano una serie di violente manifestazioni della
sinistra che promette vendetta contro “le carogne nere”, anche se non c’è
nessuna prova che il delitto abbia una matrice di destra. Salta la sede del
Fuan, decine di aggressioni, bombe davanti casa di attivisti di destra; bombe
anche alle sezioni del Msi Marconi, Tuscolano e Prenestino. Il 7 marzo, alle
19,45, esplode una bomba all’interno della tipografia dove si stampa il Secolo
d’Italia, quotidiano del Movimento Sociale Italiano. Distrutti molti macchinari
e feriti sei operai della cooperativa. Una voce femminile telefona all’Ansa:
“L’attentato al Secolo non è che l’inizio, il compagno Valerio sarà vendicato”.
Una seconda rivendicazione, al Messaggero, sarà firmata Compagni organizzati in
Volante Rossa, ossia gli assassini di Angelo Mancia. Ma non è finita: mentre si
sgombrano le macerie e si soccorrono i feriti, viene trovata dai Vigli del
Fuoco una seconda bomba, che avrebbe dovuto fare una strage. Il Secolo comunque
quella sera uscì lo stesso. Nella stessa serata una bomba esplode davanti alla
finestra dell’attivista del Tuscolano Tonino Moi, distruggendo la camera da
letto dove in quel momento non c’era nessuno. Il 9 marzo, ci fu un fatto che
avrebbe potuto cambiare per sempre la storia della politica italiana: una bomba
di otto chili di tritolo era stata posta all’interno della sede della
federazione provinciale del Fronte della Gioventù in via Sommacampagna. Se ne
accorsero dei militanti che stavano cercando dei pennelli e della colla.
Avvisata la polizia, gli artificieri disinnescarono l’ordigno due minuti prima
dell’esplosione, che avrebbe raso al suolo l’intero palazzo. Anche questo gesto
fu rivendicato dal Compagni organizzati in Volante rossa. L’11 marzo, un altro
atroce omicidio al quartiere Flaminio: sempre i Compagni della Volante Rossa
assassinano sotto casa un cuoco, Luigi Allegretti, convinti aver ucciso un
dirigente della sezione Flaminio del Msi che abita in quella stessa strada. La
sera, una bomba fa saltare la casa di un dirigente del Msi a piazza Vescovio.
Come si vede, era una guerra totale.
Ecco come Angelo Mancia viene
assassinato
I terroristi, ancora della
Volante Rossa, attendono sotto casa sua, al quartiere Talenti, il giovane
Angelo Mancia, attivista e dipendente del Secolo d’Italia, Lo aspettano tutta
la notte a bordo di un pulmino parcheggiato nei pressi. Quando Angelo si
avvicina al motorino per andare a lavorare, verso le otto e mezzo, i terroristi
gli sparano. Angelo tenta di tornare indietro, ma è troppo tardi: lo finiscono
con un colpo alla nuca, nello stile consueto della vera Volante Rossa, quella
che operò dopo la guerra nel Nord Italia, assassinando avversari politici e
gente comune, tra cui il giornalista fascista Franco De Agazio. Tra i vari
omicidi dei partigiani della Volante Rossa, ricordiamo quello del 4 novembre
1947 di Ferruccio Gatti, responsabile milanese del Msi. Il nome probabilmente
fu scelto per dare una continuità per così dire ideale al gruppo di fuoco. Il
processo contro la Volante Rossa nel 1951 si concluse con 4 ergastoli, ma tre
degli imputati erano già fuggiti, mentre il quarto scontò la pena fino al 1971
quando fu graziato dal presidente Saragat. Gli altri tre, invece, ricevettero
la grazia da Sandro Pertini nel 1978. I killer di Angelo fuggono a piedi per
poi salire su una Mini Minor rossa. Di loro non fu mai più trovata nessuna
traccia. Due ore dopo arrivò la rivendicazione a Repubblica: «Qui compagni
organizzati in Volante Rossa. Abbiamo ucciso noi il boia Mancia. Siamo scesi da
un pulmino posteggiato lì davanti». Nel 1951 gli assassini della Volante rossa
partigiana furono condannati all’ergastolo, ma erano già tutti latitanti, e di
loro non si seppe più nulla. Enorme la commozione nella comunità missina, i
parlamentari choiedono agli inquirenti e allo Stato di fare il loro dovere e di
difendere i cittadini. Ma la violenza rossa non si ferma: il giorno dopo, il 13
marzo, una bomba esplode davanti casa di Mario Pucci, giornalista del Secolo
d’Italia, il cui figlio è un attivissimo militante della sezione Flaminio. I
giornali, tutti i giornali, continuano a
infangare Angelo Mancia definendolo un picchiatore, un delinquente e altro,
tanto che il Secolo è costretto a pubblicare il certificato penale dal quale
risulta che Mancia era incensurato. Capitava anche questo allora. Ma l’offensiva
comunista prosegue: altri bar assaltati, altre sezioni distrutte, tra cui la
Prati, la cui esplosione danneggia anche lo stabile. La comunità missina serra
i ranghi e non cede, sopporta l’ondata di terrorismo senza precedenti e
denuncia l’esistenza di un piano fatto a tavolino, perché è impossibile che lo
Stato abbia perso del tutto il controllo della sua capitale, così come è
impossibile che tanta gente abbia familiarità e disponibilità di esplosivi e
armi. Almirante, Marchio e gli altri dirigenti iniziano visite in tutte le
sezioni romane in una specie di controffensiva culturale e pacifica. Qualche
giorno dopo, nella federazione del Msi di Roma, Mancia è ricordato con le
parole di Orazio: “Non morirò del tutto”, e queste parole valgono per tutti i
giovani morti per le loro idee.
SECOLO D’ ITALIA -12 marzo
2016
MONZA (MI) 1980 - MANIFESTAZIONE IN RICORDO DI MANCIA